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La vita e l’azione, di don Elio Monari qui succintamente presentate, sgorgano da una spiritualità contemplativa e attiva assieme ed è tutt’altro che avulsa dai gravissimi problemi che stavano schiacciando la popolazione italiana negli ultimi anni dell’ultima guerra. La sua carità infatti che dicevano ‘tempestiva’ e ‘puntuale’ tanto da essere giudicata dai benpensanti eccessiva e imprudente, si esprime con un coinvolgimento completo nei confronti, dei bisogni, anche primari di quel momento. Di fronte alle troppe discussioni dei cattolici delle varie scuole intervenne dicendo che la priorità del momento era la lotta attiva alle dottrine perverse del nazifascismo e il suo impegno di oppositore radicale ad esse lo trova il 9 settembre 1943 al lavoro nella liberazione dei militari italiani e stranieri prigionieri e nel sostegno dei tanti giovani allo sbando. Ma già alcuni mesi prima secondo un suo confratello si interessa della fuga di un gruppo di ebrei che indirizza sui monti del reggiano.

Dice molto bene L. Paganelli suo amico e compagno di resistenza: “Don Monari (…) fa
una scelta che va al di là del puro campo politico e del semplice antifascismo e che diviene resistenziale in quanto è scelta di umanità e di valori, in quanto è via di realizzazione, in quel tempo ed in quelle circostanze storiche, della
sua missione sacerdotale. Per questa strada e per questi fini don Elio non solo rende
consapevole la sua scelta resistenziale ma giunge a mettersi a servizio di chiunque e in
rapporto di collaborazione con chiunque, al di là di ogni appartenenza ideologica o di fede, trovando nella resistenza soprattutto un’occasione irrinunciabile per realizzare una
condivisione piena con i poveri ed i perseguitati, per assisterli come uomo e sacerdote, per aiutarli ad acquistare una giusta coscienza del loro stato e una volontà di riscatto
che rispetti determinati valori, e stando con loro, operando con loro, compromettendosi e
sporcandosi le mani con loro. In questo modo la sua scelta vocazionale sacerdotale e
missionaria viene a combinarsi con la sua scelta 5 resistenziale e quest’ultima gli si presenta come irrinunciabile, al di là di ogni ostacolo e costi quello che costi”.
In questo suo lavoro giudicato senza risparmio di energie e di mezzi e senza nessuna
considerazione del rischio, tanto da definirsi prete d’assalto, don Elio si trova compagno di
altre figure splendide di quel momento: Oltre a don Zeno Saltini, il B. Odoardo Focherini, don Arrigo Beccari, don Mario Rocchi, Mario Lugli, don Pasquini Borghi, don Roberto Angeli e altri che hanno pagato assai caramente il loro impegno anche da deportati o da sterminati a Dachau.
L’ascesa definitiva ai monti con i suoi amati giovani, quando ormai è ricercato dalla polizia, con due mandati di cattura a suo carico rappresenta senza dubbio l’occasione
dell’espressione massima della sua carità; è qui infatti che egli può concretamente consumare per loro, come in un olocausto, tutte le sue energie fisiche e spirituali.

Adesso egli può dire di essere tutto per i giovani. Egli ha preso molto
sul serio l’impegno assunto assieme ai 6 Sacerdoti Piccoli Apostoli di vivere radicalmente l’amore sul modello perfetto di chi “Volle, di certo, – come scrive s. Bonaventura di S. Francesco – essere conforme in tutto a Cristo crocifisso, che, povero edolente e nudo rimase appeso sulla croce”.
Infatti don Zeno parla chiaramente di un impegno solenne preso comunitariamente dal
suo gruppo di sacerdoti, non sappiamo in che forma, i quali “hanno deciso di dare la vita, lieti anche nel martirio”. Ma lui solo alla fine, tra i preti sottoscrittori dell’impegno, ebbe la grazia di assaporare fino in fondo il calice del Signore.
Ma intanto lì – continua L. Paganelli – in quella “situazione complessa della guerriglia,
attraversata da entusiasmi e grandi ideali ma anche da odi e rancori e piena di violenze; ricca di grandi generosità e di autentici quotidiani eroismi, ma anche di grandi miserie umane”, in questo clima dove le vendette e le rappresaglie si susseguono a catena e dove un cecchino è sempre all’erta e la morte un incubo onnipresente egli mette a repentaglio la propria vita. E ancora lì dove non solo i tedeschi 7 e i fascisti ma anche i compagni di viaggio, soprattutto se richiamati al rispetto fondamentale per ogni uomo, si possono trasformare in nemici egli sceglie di prodigare fino in fondo la sua carità sacerdotale.

Tutto ciò lo conferma, il comandante Lino (Luigi Paganelli) suo discepolo e compagno di lotta fino all’arresto: “Durante il combattimento di Piandelagotti sebbene sconsigliato
insistentemente dai suoi amici, udendo le grida di un ferito agonizzante oltre le linee, pienamente conscio del suo certo sacrificio, affermando che sarebbe stato ben felice se
avesse potuto fare olocausto della sua vita per la salvezza di un’anima, si recò sotto il fuoco diabolico a portargli i conforti della religione”.
La sua fine di ‘prete d’assalto’, come dicevamo, è quasi immaginabile: intento a soccorrere i feriti, chinato su un partigiano morente, riconosciuto come il prete ricercato per l’aiuto dato agli ebrei, arrestato dai tedeschi e pestato a sangue è avviato alla fucilazione come un volgare traditore. Ma proprio in quelle ore buie
nel carcere improvvisato delle cantine di Villa 8 Triste di Firenze ci viene la testimonianza della sua coerenza assoluta e della sua fede incrollabile, infatti “lo avrebbero lasciato libero se fosse andato con i fascisti, ma egli preferì la morte”. Spogliato dunque della sua veste sacerdotale dalla quale mai aveva voluto separarsi, lasciato nudo su un terrazzo sotto il sole di luglio per quasi due giorni coperto di lividi e ferite, dopo aver dato l’assoluzione ai suoi compagni si avvia alla morte con la preghiera sulle labbra e cade trafitto dalle pallottole ai piedi del monumento a Washinton nel parco delle Cascine. Il suo corpo nascosto in una trincea sull’Arno assieme a quello di altri 16 giovani antifascisti uccisi a più riprese, verrà ritrovato solo nel 1956 e sepolto a Rifredi due anni dopo.

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