- IL MARTIRIO SECONDO LA CHIESA OLTRE ALLA
- MORTE VIOLENTA IMMEDIATA O SUCCESSIVA A CAUSA DI MALTRATTAMENTI, adesso assolutamente certa per don Elio e di 5 altri detenuti con la fucilazione tramite mitra da parte di Giuseppe Bernasconi e tre della sua banda alle ore 6 del 16 luglio 1944 davanti al monumento di G. Washington alle Cascine a Firenze. Sepolto a 1 km e 1/2 dal luogo dell’esecuzione in una trincea con altre 11 persone uccise in quel periodo.
RICHIEDE:
- Il MARTIRIO FORMALE “EX PARTE VICTIMAE”: Il cristiano ha subito la morte –
non perché costretto – ma accettandola volontariamente in quanto mosso dalla carità, rendendo, con la sua morte testimonianza alla fede
- Possiamo parlare in don Elio anche di una vocazione al martirio che si manifesta nelle sue parole e nella sua vita. È una vocazione che i suoi confratelli gli riconoscono.
Don Elio scrivendo all’Arcivescovo C. Boccoleri nell’agosto del 1943 esprime già questo intento “Mi dichiaro pronto a mettere tutte le mie povere forze a disposizione della gioventù cattolica, per consumarvele tutte, fino alla fine (…) Sono contento di poter lavorare tutto e solo per i giovani. Anche questa è una grazia”[1].
- Vi sono poi dei comportamenti molto significativi in questo senso
Don Elio ha formulato e sottoscritto con, don Zeno Saltini, don Arrigo Beccari, don Ennio Tardini e altri 4 la famosa notte tra il 2-3 febbraio 1943 a S. Giacomo il famoso Statuto dei Sacerdoti Piccoli Apostoli in cui tra l’altro si afferma che: “Si impegnano ad immolarsi corpo e anima nel santificare [evangelizzare] tutte le forme della vita del popolo percorrendo e precorrendo l’indole e la esigenza dei tempi”[2];
((Tra parentesi notiamo che da quel momento che i sottoscrittori – non so se con una specie di impegno solenne – hanno preso molto sul serio è nata una vera fraternità sacerdotale dove il dare la vita uno per l’altro era contemplato, la rinuncia la proprietà privata, farsi padri dei più poveri e abbandonati in parrocchia, per cui parlando di quanto essi stessi facevano usavano spesso il noi e gli altri dall’esterno parlando di essi usavano il “loro”.
DON ZENO SCRIVENDO ALL’ARCIVESCOVO BOCCOLERI NOTA: “Vostra Ecc., D. Beccari, D. Tardini, D. Monari si sentono trasportati a collaborare con l’Opera Piccoli Apostoli disposti a fare tutto quel bene che insieme possiamo svolgere al fine preciso di indurre le masse popolari a ritornare a Dio nella santificazione delle loro giuste aspirazioni cristiano-sociali secondo anche l’ultimo messaggio natalizio del Santo Padre” [3]
Premettiamo che Don Elio è considerato anche da don Zeno quasi un fondatore di questa aggregazione sacerdotale dei Piccoli Apostoli e dice: “Don Monari di Modena, quell’ardente sacerdote che fece un bene immenso tra i giovani e che è stato fucilato dai nazifascisti perché patriota, veniva spesso per alcuni anni da me, sempre proponendomi di studiare un modo di unirci tra noi sacerdoti per realizzare in più vasta scala l’Opera Piccoli Apostoli[4].
DON ARRIGO parla in questi termini della neonata fraternità sacerdotale: “Non era un ‘amicizia comune tra sacerdoti, era un’amicizia particolare, spirituale, profondamente vera… Era un’amicizia tra persone che volevano fare cose concrete [amicizia fattiva non autoreferenziale come si dice ora] che traducessero in pratica il concetto di fratellanza cristiana” [5] .
DON ENNIO parla al plurale: “Allora c’era già questa ramificazione, don Monari da S. Biagio di Modena, lui si teneva in relazione con noi e ci smistava ebrei che venivano anche da Firenze. Ricordo che una volta, quando si arrivava a mangiare al mezzogiorno a tavola, sentivo suonare il campanello della porta del Seminario; dico: “Ci siamo!”. Noi sapevamo che doveva mandarci circa in quell’orario lì. Si andava là a sentire, si presentava questa gente, questi forestieri con queste letterine di don Monari. Anche Martini, per esempio, quando è sfuggito dall’Ospedale dove restò ferito e che don Monari è riuscito a farlo scappare, che poi si è nascosto, mi sembra, nella zona di Casinalbo[6]. ))
- Riprendendo il discorso sul martirio…
Vi è una spiritualità del martirio molto forte in don Zeno Saltini che attraversa tutti i suoi scritti condivisa certamente don Elio, una grazia necessaria per lo sviluppo di Nomadelfia. Nella lettere:
Scrivendo alla Sig. Carolina Sartoretti Taparelli: “I Sacerdoti piccoli Apostoli, nelle loro più intime conversazioni hanno deciso di dare la vita, lieti anche nel martirio, pur di penetrare le masse attraverso la santificazione delle forme di vita moderne” [perché ] “arriveremo alle masse per farci sbranare e per salvarle” …[7]
Scrivendo a Pio XII il 10 dicembre del 44, don Zeno afferma: “Il martirio già irriga di sangue le radici dell’Opera Piccoli Apostoli. Don Elio Monari di Modena, Sacerdote Piccolo Apostolo è stato fucilato dai tedeschi.
- I suoi compagni di resistenza ci dicono che “Pienamente conscio del suo certo sacrificio, affermando che sarebbe stato ben felice se avesse potuto fare olocausto della sua vita per la salvezza di un’anima, si recò sotto il fuoco diabolico a portargli i conforti della religione”[8].
- Nomadelfo: Io ho fatto in tempo a viverci poco perché purtroppo don Elio è stato preso a Piandelagotti in un combattimento che io, erano tre o quattro mesi, che ero su, perciò non ho fatto in tempo a conoscerlo profondamente. Ma per quel po’ di tempo che si è conosciuto come sacerdote, eh! cosa si deve dire? Ha dato la vita, si è immolato, oh! per salvare, non per offendere, per salvare; questo è il capo principale. Perché andare ad uccidere un tedesco non è da eroi, da eroe era andare a salvare uno dei tuoi compagni, uno dei tuoi amici, una persona umana: questo è un atto eroico. E Elio ha fatto questo… Non solo è stato preso vivo, ma le torture alle quali è stato sottoposto Don Elio…. È stato sottoposto a delle torture immense perché non è stato trovato, preso come sbandato, ma lui è stato preso che soccorreva un partigiano! Un prete che soccorre un partigiano! . (motivo dell’arresto!!)
- Cogliamo nella sua vita, con i suoi contemporanei, una vocazione al dono totalitario di sé, senza misurare i costi: fatica, il rischio, la pena di morte, che pare orientato al martirio. Vi è in questo senso una testimonianza, tra le altre in cui risponde a coloro che lo criticavano il suo eccessivo affaticarsi e trascurarsi per l’apostolato: “Se il Signore mi chiama presto a sé voglio avere qualche cosa di meritevole da presentargli, la vita del cristiano non si misura con gli anni”[9].
- I suoi superiori dicono che era un “lavoratore che si dedicava oltre il limite delle sue forze e con grande generosità alla gioventù. E che il suo era un apostolato in forma vertiginosa con intensità”[10].
- Tale impegno estremo lo troviamo più tardi anche nei confronti delle persone – soldati stranieri, ebrei, antifascisti, che cercava di salvare: Scrive uno dei soldati da lui salvati, con accenti di forte commozione: “Nessun uomo fu più coraggioso, nessuno rischiò maggiormente di uno dei preti, don Monari, nessuno subì una fine così violenta come quella del prete trentenne. La loro salvezza è dovuta al suo impegno durato tutta la sua vita”[11].
- TESTIMONIANZA DEL CONFRATELLO TERZIARIO CARMELITANO SCALZO EMILIO SALOTTI “Questo motto di S. Giovanni della Croce: ‘Patire ed essere disprezzato per te ’ il nostro don Elio lo fece suo anzi lo desiderò e lo visse come i martiri sanno vivere in loro la passione di Cristo… Era ardentemente desideroso di imitare quel Cristo che tanto aveva amato e per il quale tanto si era prodigato, fino al punto di volerlo uguagliare nell’estremo sacrificio del Golgota”[12].
- MARIO CONTATORE [Teste oculare]: C’è un breve passo del Vangelo che dice: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri fratelli: don Elio Monari, non c’è dubbio, l’ha fatto suo”[13].
DON MARIO ROCCHI: “Don Elio voleva veramente ripetere quello che aveva fatto Gesù sulla croce. Gesù l’ha chiamato veramente a celebrare una crocifissione, una morte e una passione”[14].
Quella carità che poi esprimerà in modo supremo al momento della morte è la stessa che lo accompagna tutta la vita, gli fa compiere quei gesti estremi, lo porta, a non nascondersi, lui che ha nascosto il mondo intero, ma a salire tra i monti dove sa che i suoi ragazzi hanno bisogno di lui: ‘Lassù ci sono parecchi dei miei giovani, essi sono in pericolo e non posso abbandonarli’ .
Lo porta, passaggio fondamentale della sua vita cioè a rifiutare la liberazione in cambio del passaggio al nemico come ci dice il cap. Feliciani, a testimoniare ancora una volta la qualità della sua fede; queste le parole di un compagno di cella: “Di noi tre – Feliciani, Pampaloni e Monari, don Monari era il più sereno, animato sempre da una fede incrollabile. Era davvero una luminosa figura di sacerdote. Nulla poteva intaccare la sua serenità. Trovava perfino che la cella costituiva un alloggio passabile; al confronto, si intende, di quel terribile autocarro sul quale lui e il cap. Feliciani erano arrivati a Firenze, buttati sul tavolato coi polsi legati dietro la schiena per un giorno intero, senza neppure un sorso d’acqua …. Quanto a Lui, don Monari, era troppo fidente nella misericordia di Dio per non affrontare col più sereno coraggio qualunque prova”[15].
- MARTIRIO FORMALE “EX PARTE PERSECUTORIS”: Avversione alla fede da parte degli uccisori (odium fidei) o ad una virtù connessa con la fede.
La Chiesa ha già riconosciuto un numero immenso di volte l’odium fidei insito nella ideologia nazifascista, assolutamente incompatibile con il cristianesimo e che si è manifestata brutalmente con la persecuzione del clero in tutto Europa[16]. ( Citazione papa G.P. II[17]) Questo sarebbe sufficiente per andare velocemente nella direzione del riconoscimento del martirio di don Elio Monari. Gli uccisori materiali di don Elio, della Banda Bernasconi-Carità sono espressione di questo odio per la fede cristiana proprio perché negazione teorica e pratica del nazifascismo.
È indubbio che esaminando l’andamento dei fatti si sia voluto riservare a don Elio un trattamento speciale a differenza dei suoi confratelli modenesi arrestati che furono o duramente maltrattati o imprigionati come don Arrigo, don Ennio e don Ivo Silingardi e poi liberati o deportati nei lager in Germania, da cui don Sante Bartolai e don Mario Crovetti riuscirono a fare ritorno.
È doveroso fare memoria di altri due preti modenesi vittime della ferocia nazifascista e cioè don Natale Monticelli fucilato a Bologna il 20. 09. 1944 e don Giuseppe Donini ucciso a tradimento dai Nazisti a Castagneto il 19.04.45.
Secondo le fonti autorevoli di cui siamo in possesso don Elio viene arrestato che è disarmato, mentre amministra i sacramenti a un partigiano morente, ne è prova la stola sacerdotale che gli cade nel pestaggio duro che fa seguito all’arresto e che i suoi compagni portano al parroco di Piandelagotti don Lino Messori. (l’abbiamo anche cercata io don Luca Pazzaglia e altri ma senza successo) Viene subito accusato di essere un pastore bandito (partigiano), un falso pastore perché bandito – pare per la camicia americana che spunta dalla talare aperta – e inspiegabilmente trattato in modo molto duro, tanto che legato col fil di ferro a piedi viene portato a Sant’Anna Pelago dove lo sentono lamentarsi dicendo: “Mio Dio basta, basta non ne posso più”.
Il Maggiore Peter Lewis, coerentemente con le testimonianze già riportate, scrive che: “Il 5 luglio sulle montagne ebbe luogo uno scontro partigiani e forze tedesche e don Monari fu catturato mentre si prendeva cura di alcuni feriti. Fu portato al paese della Santona, dove il comandante tedesco delle SS lo riconobbe grazie a un identikit che era stato diffuso quando era ricercato per i contatti con l’Organizzazione Clandestina”. È quindi venuta alla luce la sua attività in favore dei nemici del nazismo, è perciò un uomo finito, lui lo sa benissimo.
Il fatto perciò di essere stato identificato con il prete ricercato che, nel mandato diffuso dalla G.N.R. doveva “essere immediatamente arrestato a qualunque costo”, cioè vivo o morto, determinò la scelta di un trattamento speciale che lo sottrasse all’aiuto dei molti amici che aveva in zona e lo fece inviare a Villa Triste di Firenze. Tutti i tentativi di rintracciarlo e di liberarlo per mezzo di uno scambio di prigionieri con la mediazione di don Ferruccio Richeldi furono fatti naufragare. Anche i fascisti non sanno dov’è finito.
Dopo ciò diversi testimoni riferiscono della sua presenza a Villa Triste a Firenze in Via Bolognese 67 sede dell’SD (Servizio Investigativo tedesco) incaricato dell’individuazione dei reati o dei potenziali nemici del nazismo, e dell’eliminazione degli oppositori. Al fine di espletare il suo compito, l’SD creò un′organizzazione di agenti e informatori anche italiani. A questo punto incontriamo a Firenze come diretto collaboratore ed esecutore delle SS, uno dei personaggi più spregiudicati di tutto il Fascismo repubblicano: il maresciallo della Giuseppe Bernasconi, assai noto ai tedeschi che parla bene la loro lingua, che dopo il 4 giugno 44 Bernasconi si era trasferito da Roma liberata a Firenze; e subentrato, con un manipolo di delinquenti della stessa risma alla famigerata Banda Carità, rilevando la guida dell’Ufficio Politico Investigativo (UPI) della Guardia Nazionale Repubblicana fiorentina quando Mario Carità quando in quei giorni si trasferisce prima a Bergantino e poi a Padova, dove verrà poi ucciso dagli americani. Quanto alla sensibilità religiosa di Bernasconi la sua storia la dice tutta, fu anche espulso dal partito Fascista per indegnità morale, cocainomane, perché socialmente pericoloso, sanguinario, ladro ritornato ai vertici del potere dopo l’8 settembre. A Roma collabora con la Banda di Pietro Koch uno dei pochi fucilati dai tribunali speciali del dopoguerra prima dell’amnistia del 1953 Togliatti. È complice nelle azioni più spregiudicate e violente, e dell’irruzione armata, e violazione della extraterritorialità e clausura del monastero di san Paolo fuori le mura complici due ex monaci Vallombrosani uno dei quali si chiama Epaminonda Troja, dove si nascondono ebrei e militari, partigiani, oppositori del regime, con gravi offese all’Abate, ai monaci, alla Chiesa, al papa. È rimasta famosa la frase rivolta a Pio XII in quella circostanza dopo aver accusato l’Abate I. Vannucci di aver macchiato la sua dignità di sacerdote «nascondendo nel convento ebrei, giovani renitenti alla leva e ufficiali»: “Manderemo a zappare il papa”. È implicato nei fatti di via Rasella, Fosse Ardeatine. Al processo di Lucca del 1951 è accusato di tutto e soprattutto di strage, delle torture pesanti e dell’omicidio di don Elio e del gruppo soppresso con lui con l’occultamento di cadaveri. Qui secondo la testimonianza di Cesare Claretto suo vicino di cella di don Elio a Villa Triste dopo l’8 luglio è perfettamente consapevole di dover morire perché, gli confida: “sono stato trovato vicino a un partigiano moribondo durante il combattimento e quindi per me non c’è altro che la fucilazione”. E prima di questa un sacco di torture e di umiliazioni per farlo parlare. Una delle umiliazioni più grandi fu quella di essere completamente denudato ed esposto sul terrazzo di Villa Triste per un paio giorni.
L’unico particolare squallido che conosciamo dell’esecuzione attraverso una testimonianza al processo di Lucca è raccontato in questi termini: “Di ritorno dalle Cascine [subito dopo la fucilazione dei sei] Bugliani Loris – un altro del plotone di esecuzione – che stava seduto sul parafango della macchina esce con una bestemmia: “Porco…. almeno avessi potuto finire di scaricare il mitra che nel momento più bello mi s’è inceppato”. Uno dei gesti dissacratori nei confronti di don Elio è certamente la spoliazione della veste talare, la sottrazione della croce d’oro che portava al collo e le ultime terribili torture riservate ai prossimi alla fucilazione. Il fratello di don Elio, Erio ci dice: “La madre di Molendini – un altro fucilato con don Elio – disse a me e a mia madre, durante il processo, che il 17 luglio andò a Villa Triste per sapere notizie di suo figlio. Ebbe modo di parlare direttamente col capitano Bernasconi, comandante della famigerata “Banda Carità” (…) Lo stesso disse alla Molendini che suo figlio stava bene e di non preoccuparsi. Fu uscendo da Villa Triste che vide una tonaca da prete nella spazzatura”. Fucilato quindi con altri cinque detenuti davanti la Monumento a G. Washington alle Cascine e lasciati tutto il giorno in quella posizione per essere poi trasportati nella notte in una trincea lungo l’Arno dove finirono altri 11 corpi di arrestati, rastrellati e fucilati in quei giorni fino al 23, quando ci fu una seconda fucilazione. Gli alleati sono alle porte di Firenze e bisogna fare presto per poi scappare al nord.
Come sappiamo le ossa di don Elio confuse con quelle di altri 16 uomini furono ritrovate dopo 12 anni in una trincea trasformata in fossa comune sulle rive dell’Arno alle Cascine. Dall’ottobre 1958 riposano al cimitero di Rifredi a Firenze.
TETSIM0NIANZA DI LUIGI PAGANELLI GIUNTA RECENTEMENTE DA NOMADELFIA IN UNA REGISTRAZIONE
(Il prete che ci ha avviato alla resistenza è stato don Elio Monari. Era un prete, Piccolo Apostolo che poi diventò il cappellano dei partigiani della montagna e poi fu catturato durante un combattimento il 4 luglio del 44, fu portato a Firenze a Villa Triste, fu torturato e fucilato e gli hanno dato la medaglia d’oro per questo suo coraggioso modo di partecipare alla resistenza non con le armi ma con il suo magistero sacerdotale. Era riconosciuto anche dai comunisti più anticlericali e più senza Dio, perché allora dei comunisti senza Dio anticlericali ce n’erano, come un uomo di grande rispetto. Don Elio Monari si poteva permettere di andare al comando anche di fronte ai grandi capi come Armando e il Commissario Davide a dire…questo…questo…questo non è giusto non dovevate farlo e quelli lì per quanto superbi e a volte prepotenti di fronte a don Elio tendevano a scusarsi, perché da lui il rimprovero lo prendevano.
Poi abbiamo avuto altri preti che ci hanno dato un grande aiuto e indirizzo: Don Beccari e Don Ennio. Il lavoro che noi abbiamo incominciato a fare non fu quello della resistenza armata. Intanto si trattava di salvare la nostra vita, di non presentarsi ai comandi tedeschi o fascisti perché ci portavano in Germania (…) e se non si aveva una certa carta in mano quando giravi per la strada e le pattuglie ti fermavano “Papir” o avevi la carta giusta o ti portavan via. La carta giusta falsa in cui risultava che mi ero presentato al comando tedesco ed ero a casa con regolare in congedo in attesa di essere chiamato con tutti i timbri del commandantur (comando) tutto in tedesco tutto a posto, ma tutto falso, me lo fece avere don Beccari attraverso un’organizzazione clandestina che avevano costituito, mi dice don Ennio, sempre loro. E molti giovani che non vollero presentarsi ai tedeschi e ai fascisti ebbero questo documento e potevano circolare, stando attenti, e fare molte cose. Le molte cose che ci dissero di fare don Arrigo e don Ennio Monari (sic!) erano di dare mano ai più poveri di noi: “Siete anche voi clandestini, in pericolo ma gli ebrei sono più in pericolo di voi. Ma i prigionieri alleati che erano fuggiti dai campi di concentramento sono più in pericolo di voi. Questi devono essere quelli che voi aiutate”. E il primo lavoro che ci chiesero di fare fu quello di portare gli ebrei verso la Svizzera, ci procuravano loro le carte d’identità false, ci provvedevano di vestiti, di alimenti, perché era sprovvisti di tutto, ci aiutavano…. ne furono salvati tanti e così di prigionieri alleati. Questo lavoro io non l’ho fatto tanto, non mi fu affidato, don Monari invece mi mandò in giro con delle sue lettere o con delle sue parole d’ordine per collegare tutti i gruppi di giovani di Azione Cattolica della nostra diocesi dicendo: Badate che non dovete presentarvi ai Fascisti e ai tedeschi. “Se non volete presentarvi c’è la maniera di stare uniti e informati”, di formare l’organizzazione clandestina. Questa poi costituì il punto di partenza per l’organizzazione della nostra resistenza cattolica in provincia di Modena ( Archivio Nomadelfia)].
Ferrara) – Domenica, 23 settembre 1990
Don Angelo Belloni
[1] Archivio Centro Luigi Ferrari.
[2] Archivio Nomadelfia.
[3] Ibid. Lettera di D. Zeno vescovo di Modena Mons. Cesare Boccoleri 2/2/43.
[4] Ibid.
[5] Cit. di Marco Galvagno, Don Zeno e Nomadelfia p. 193.
[6] Incontro a Nomadelfia con Paganelli ecc. 1984.
[7] Ibid.
[8] Luigi Paganelli, ACF-DEM f.3 c.3
[9] Nostro Tempo, 13. 9. 1998.
[10] L’avvenire d’Italia del 29.09.1953.
[11] Archivio Centro Ferrari, (Maggiore Peter Lewis, Everybodys).
[12] Emilio Salotti, ACF-DEM f. 3, c.3
[13]CF-DEM, F. 3, c. 3.
[14] Archivio Nomadelfia, (registrazione a Rifredi nel 40° della morte).
[15] ACF-DEM, F. 1, c. 5, copia lettera dell’Avv. Giovanni Pampaloni a Mons G. Pistoni, 20 giugno 1956.
[16] Secondo Giacomo Grasso e Albina Cauvin si parla di ben 5.545 sacerdoti e religiosi uccisi non solo nei lager, di cui 400 solo in Italia. Senza contare i 150 preti modenesi impegnati in vari modi nella resistenza e imprigionati, seviziati, minacciati, ecc. (Giacomo Grasso – Albina Cauvin, Nacht und Nebel (Notte e nebbia). Uomini da non dimenticare (1943-1945), Marietti, Casale Monferrato 1981)
[17]“Tanto don Minzoni quanto i suoi confratelli, nell’esercizio del loro ministero, entrarono in urto con uomini che traevano ispirazione dall’una o dall’altra delle ideologie totalitarie e neopagane, che hanno segnato dolorosamente questo nostro secolo. Esse costituivano una negazione diretta della verità sull’uomo, creato a immagine di Dio ed elevato, in Cristo, alla dignità di figlio suo, come ci dice la rivelazione, che accogliamo nella fede.
In causa era, dunque, la persona umana; in causa era l’amore di Dio per tutti gli uomini. Perciò questi nostri fratelli nella fede che, contro tali avversari, difesero i diritti della persona umana, elevata, in virtù della grazia di Cristo, a una dignità senza uguali (cf. Gaudium et spes, 22), non fecero che obbedire a un’esigenza derivante dalla fede. E quando, guidati dall’amore più puro per i fratelli, essi si spinsero, in questa difesa, fino al dono supremo della vita, il loro gesto poté ben essere considerato come una vera e propria testimonianza di fede.
In una società secolarizzata ciò che offende non è sempre la professione della fede in Dio; a fare paura è il legame tra il pastore e la sua gente, soprattutto il legame con le nuove generazioni. Per salvarsi dalla morte, al sacerdote spesso non è comandato di rinnegare direttamente la fede, ma l’amore cristiano: non di dissociarsi da Dio, ma dall’una o dall’altra porzione del gregge, rinunciando ad essere pastore di tutto il popolo. Nuovo il genere di sacrificio, ma identico l’amore che lo ha ispirato, perfettamente uguale il costo: torturati e straziati, questi ministri di Cristo hanno ricalcato le orme degli antichi testimoni della fede” (S. Giovanni Paolo II nel Duomo di Argenta 1990).