Materiale didattico pastorale

Coordinate spaziali e temporali. Spilamberto: don Attilio Bondi; don Marino Bergonzini (in realtà San Vito di Spilamberto, nato nel 1907); don Abele Conigli (in realtà San Vito di Spilamberto, nato nel 1913, coetaneo di don Monari e nipote di don Bergonzini). Tutti questi tre frequentano il seminario dopo la bufera modernista, che aveva colpito anche don Bondi, ma che aveva lasciato pesanti tracce per l’epurazione, ma anche per le limitazioni (ad esempio nelle letture). L’ipotesi da sviluppare ed affinare con altre considerazioni è che la generazione vissuta e cresciuta sotto il fascismo si trovasse al momento di iniziare il proprio ministero sacerdotale con un patrimonio religioso integro, privo di apporti esterni, pronto ad essere speso nella sua totale freschezza. Don Elio Monari, ma anche altri preti emiliani della sua generazione, avrebbe voluto provare l’esperienza di cappellano dei lavoratori italiani in Germania o essere inviato come cappellano militare, per rimanere accanto ai suoi giovani, se i superiori gli avessero concesso il permesso.

«Sono di razza contadina», amava dire, come riporta anche don Angelo Belloni.

Come assistente della Giac, incarna un diverso modello. Chiudendo la densa ricostruzione sulla lunga stagione di Franco Costa come vice-assistente della Fuci, Renato Moro individuava nel prete genovese il segno ‘vivente’ del trapasso nel modello sacerdotale che stava investendo la Chiesa italiana a metà del Novecento. L’esaurirsi, infatti, del «tipo ideale» di assistente «incaricato del controllo ecclesiastico», epigono della crisi modernista, senza soluzione di continuità si accompagnò al progressivo affievolirsi del modello del «prete delle opere» con un suo profilo anche politico, come nel caso di don Pini, per rimanere alla personificazione di un processo più generale. Negli anni fra le due guerre mondiali, cominciò, per contro, ad affermarsi la figura dell’«assistente ecclesiastico» come «anima dell’Azione Cattolica», che tendeva ad affermare «una decisiva leadership sacerdotale nell’associazionismo cattolico», secondo una tipizzazione paradigmaticamente incarnata da Montini prima e da Guano e Costa poi[1]. È in questa parabola – mi pare – possa inserirsi don Monari, il quale, peraltro, seppe tangibilmente incarnare un rapporto significativo con i ‘suoi’ giovani, per accogliere il suggerimento formulato da Alberto Monticone attraverso l’invito a rileggere la storia del movimento cattolico anche nella linea interpretativa dei «binomi» che hanno intessuto la rete dei rapporti tra il laicato e il clero[2]. Di suo, don Elio ci mise – e non era affatto una consuetudine – una certa frequentazione della Bibbia, non sappiamo però se anche l’Antico Testamento, il quale era assolutamente estraneo ai non solo ai giovani, ma più in generale ai laici, e una certa consuetudine con la storia della Chiesa, come a dire Vangelo e giornale, secondo quanto amava dire, perché lo faceva, Giorgio La Pira, ma la stessa immagine fu utilizzata da molte altre personalità non solo cattoliche. Attiva poi l’Ufficio lavoratori all’interno della Giac modenese, tenendo conto le difficoltà incontrate allora dalle specializzazioni. Più consueta, invece, era l’attivazione della San Vincenzo, almeno nella Fuci. E anche se non consueta, sicuramente non molto diffusa fu l’esperienza del cenacolo diocesano per i responsabili della Giac, ai quali era chiesta una vita religiosa intensa, per sostenere il loro ruolo. Ho in mente a Parma il cenacolo, nel quale fu coinvolto Giorgia Coppa. Sicuramente originale fu la richiesta avanzata al vescovo di costituire l’Unione assistenti della Gioventù italiana di Azione cattolica, la quale non si realizzò per il precipitare della guerra, ma faccio notare che la fraternità sacerdotale era stata realizzata già con i Sacerdoti Piccoli apostoli di don Zeno. Con i giovani era capace di parlare anche per una notte intera, come avrebbe ricordato Ermanno Gorrieri, ma il dialogo spirituale era una costante del suo ministero, tanto che possiamo dire che l’«amicizia spirituale» fu una delle prerogative esercitate.

Le sue capacità furono notate anche a livello nazionale nel corso degli appuntamenti che punteggiavano il calendario, che solitamente erano il banco di prova per la chiamata a Roma, che ovviamente non si materializzò per la morte precoce.

Vorrei richiamare una lettera scritta da don Elio al vescovo Boccoleri nel dicembre del 1943, dopo una richiesta avanzata il luglio precedente, dunque nel periodo più intenso dell’aiuto ai prigionieri alleati e agli ebrei: «Sono tanto contento di poter lavorare tutto e solo per i giovani. Anche questa è una grazia… Spero che in questa strada il Signore mi aiuti a santificarmi ed a santificare, e dare tante consolazioni al cuore paterno di V.E.».

Altro aspetto interessante è che è don Elio a ricucire lo strappo generazionale tra gli antifascisti cattolici, incarnati da Alessandro Coppi, esponente della prima generazione popolare, e Ermanno Gorrieri, leader dei giovani di Ac, facendo venire nella parrocchia di San Biagio Antonio Amorth e Giuseppe Dossetti per alcune conferenze, le quali sono alla base della nascita della Dc modenese. Richiamo questo particolare non tanto perché sia stato ignorato da chi si è occupato di questa storia, ma per far risaltare il contributo di don Elio, capace di intessere relazioni anche con don Roberto Angeli di Livorno, attraverso un prete della stessa diocesi originario di Modena, come don Amedeo Tintori, ma don Angeli era il punto di riferimento dei cristiano sociali di Gerardo Bruni, che contrastavano l’unità politica dei cattolici attorno alla Dc. In ogni caso, a don Elio si deve lo stimolo a organizzare nella sede dell’Azione cattolica di via Bonaccorsa a Modena il Congresso costitutivo del movimento giovanile della Dc, prima che venisse sconsigliato dal delegato vescovile di continuare a tenere riunioni di partito lì. Questa idea, diciamo così, plurale, comunque, don Monari la declinò anche nell’assistentato a tutte le formazioni militari partigiane, oltre alla Brigata Italia di stampo democristiano, tenendo conto di quanto ha scritto e mi hanno testimoniato Gorrieri e Paganelli sulla competizione con la componente comunista. Da questo punto di vista, non si può sottacere il fatto che don Elio, durante la sua breve permanenza in montagna, abbia cercato di umanizzare la lotta partigiana, cercando di evitare processi sommari dei prigionieri nemici, di evitare rappresaglie nei confronti della popolazione, di prestare assistenza ai feriti. Questo, come sappiamo, lo portò alla fine alla morte. Insomma, fece sì la Resistenza, frutto e esito di una scelta, ma la fece da prete, come ha, del resto, sottolineato ancora una volta don Luigi Belloni.

I drammi bellici vissuti insieme ai propri parrocchiani attivarono nel clero emiliano un’evoluzione tanto più significativa, se si considerano i punti di partenza precedentemente esaminati. Alcuni spunti in questa direzione erano già avvertibili prima del 1943, almeno stando ad alcuni appunti probabilmente scritti da don Elio Monari: «Più la vostra condizione vi distingue dagli altri e più voi dovete avvicinarvi ad essi, e più dovete per così dire umanizzarvi e più dovete avere dolcezza, moderazione, carità»[3]. Comunque, secondo le prescrizioni del tempo, portava la talare completa, con tanto di collarino, che si tolse soltanto quando salì in montagna coma cappellano delle formazioni resistenziali.

Proprio nei primi anni della guerra cominciarono i primi contatti dell’assistente della Giac modenese, che morirà a Firenze per mano della banda «Carità», con don Zeno Saltini, che stava lavorando per la creazione di un movimento composto inizialmente solo da preti che avvertivano che «tra noi sacerdoti e le masse vi è un abisso che ci divide, per cui le masse non capiscono noi e noi non comprendiamo esse»[4].

Probabilmente alla frequentazione con don Zeno e all’immedesimazione con la sua opera e i suoi ideali, si deve l’intuizione di costituire l’oratorio cittadino, per allargare l’impegno dei giovani, anche al di fuori dell’apostolato dell’Azione cattolica, che don Elio non vide mai realizzato, ma che ugualmente lo vide protagonista nei primi passi mossi con don Mario Rocchi, il quale lo realizzò dopo la guerra con la Città dei ragazzi, che di fatto finì per accogliere e coinvolgere i tanti drammi lasciati dal cumulo non solo materiale delle macerie belliche. Un elemento peculiare che mi ha colpito è che don Elio, nonostante fosse solo assistente della componente maschile della Gioventù cattolica, allargasse anche alle ragazze l’attenzione spirituale, tenendo conto della rigida divisione per sessi allora imperante, tanto che ogni ramo dell’Ac aveva assistenti dedicati. Comunque, don Mario Rocchi e don Zeno Saltini, preti ai quali don Elio si legò, furono capaci anch’essi di superare questo modello separato. La categoria del superamento della separatezza tra sacerdote e popolo di Dio si attaglia perfettamente a don Elio, come, del resto, io stesso ho tentato di dimostrare, prendendo in considerazione itinerari biografici come il suo e parlando di prete, più che di sacerdote, se si vuole ricorrere all’etimo delle parole.

Meno convincente mi sembrano le parti dedicate da don Luigi Belloni al rapporto tra don Monari e Boccoleri.

La facoltà di aggregarsi ai partigiani era demandata, ancora una volta, ai singoli sacerdoti, che in diversi casi si erano già orientati in questo senso. Boccoleri di fronte a don Elio e a don Nino Monari, che già avevano spontaneamente operato una precisa scelta di campo, minacciò la sospensione a divinis se non avessero desistito[5]. Quest’ultima decisione di Boccoleri, per altro presa nella primavera del ‘44, quando il fenomeno resistenziale cominciava a strutturarsi in forme maggiormente definite, esulava dalla questione specifica dell’assistenza religiosa, ma confermava che all’arcivescovo modenese la realtà stava sfuggendo di mano. Sappiamo con quasi assoluta certezza per la ricostruzione effettuata da Luigi Paganelli sulla base della testimonianza di don Costantino Bortolotti, parroco di Lago di Montefiorino, dove don Monari si era recato, dopo l’ipotesi avanzata a suo tempo da Ilva Vaccari, che Boccoleri effettivamente la scrisse[6].

Dopo l’8 settembre c’è una scelta dettata dall’amore cristiano, che lo spinge a soccorrere i militari alleati – alla fine furono più di duecento – fuggiti dai campi di concentramento, poi a soccorrere – il numero è sconosciuto per l’assoluta segretezza che accompagnava queste azioni – gli ebrei, dapprima nascondendoli, poi procurando documenti falsi, infine facendoli oltrepassare la frontiera per la Svizzera, corrompendo le guardie. Anche in questo caso violava consapevolmente la legge, ma anche i comandamenti. Di fatto collaborò con la rete che faceva capo a Odoardo Focherini di Carpi, con il concorso di don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli, ma anche ad altre reti, come quella nella quale era coinvolto don Arrigo Beccari di Nonantola e quella che si appoggiava a don Benedetto Richeldi a Finale Emilia, come ha ben documentato Enrico Ferri. Sto parlando di persone riconosciute tutte come giusti fra le nazioni dallo Yad Vashem. Sottolinea, poi, ancora che con Richeldi era in contatto alla Giac, nella quale ricoprivano entrambi l’incarico di vice-assistente, come aveva avuto un rapporto ancora più stretto con Rocchi nell’associazione. Per non parlare, poi, dei collegamenti mantenuti tra i giovani della Giac saliti in montagna e quelli legati nella Bassa modenese a don Zeno.

E torniamo a quanto detto sulla volontà di superare la separatezza, la quale, per contro, era un tratto distintivo della concezione sacerdotale dell’arcivescovo di Modena e non solo. Merita però di essere sottolineato che, se conosciamo tante persone che, in quei difficili frangenti, si prodigarono per l’una o l’altra categoria di bisognosi, non ne conosciamo una che lo abbia fatto alla fine per tutte, compresi gli ebrei minori di Villa Emma, uno degli episodi più luminosi della salvezza ai fratelli maggiori, come sarebbero stati definiti dal Concilio Vaticano II gli ebrei in rapporto ai cristiani.

Io ho dei dubbi sulle modalità della morte di don Elio, non perché abbia prove differenti rispetto a quelle prese in considerazione da chi ne ha studiato il «calvario», come è stato definito da molti, ma perché non ho mai trovato esperienze comparabili del ping pong tra fascisti repubblichini e nazisti delle ss nel suo caso.

Prof Paolo Trionfini – Un. Parma

 

 

[1] Cfr. R. Moro, Franco Costa vice-assistente della FUCI, in Don Franco Costa. Per la storia di un sacerdote attivo nel laicato cattolico italiano. Studi e testimonianze, Roma, Ave, 1992, pp. 286-290.

[2] A. Monticone, Nella storia degli uomini. La scelta di essere cattolici, a cura di P. Pisarra, Roma, Ava, 1984, pp. 27-30.

[3] Appunti, pensieri, note, in ACF, Fondo Don Elio Monari, F. 5, c. 5.

[4] Lettera di don Zeno Saltini a mons. Cesare Boccoleri, 6 febbraio 1943, in Archivio di Nomadelfia, copia in ACF, Fondo Don Elio Monari, F. 2, c. 2.

[5] Sulla vicenda cfr. L. Paganelli, Don Elio Monari e Chiesa e società a Modena tra guerra e Resistenza (1940-1945), Modena, Mucchi, 1990, pp. 103-105; I. Vaccari, Il tempo di decidere. Documenti e testimonianze sui rapporti tra il clero e la Resistenza, Modena, C.I.R.S.E.C., 1968, pp. 182-187. Erroneamente G. Bocca, La repubblica di Mussolini, Milano, Mondadori, 1995, p. 227, li considera fratelli.

[6] L. Paganelli, Don Elio Monari e Chiesa e società a Modena tra guerra e Resistenza, cit., p. 104.