DON ELIO MONARI, sacerdote
(25-10-1913 – 16-07-1944)
Don Elio Monari nasce in un casolare del Comune di Spilamberto (Mo) il 25 ottobre 1913 da Augusto e Luigia Ori, lavoratori della terra e viene battezzato lo stesso giorno nella sua parrocchia di Sant’Adriano. Nel 1927 entra nel seminario minore di Fiumalbo (Mo). In questo periodo manifesta la chiamata alla vita missionaria che vorrebbe seguire nella Compagnia di Gesù ma incontra un’opposizione forte e con suo grande disappunto deve abbandonare il progetto.
Alla fine del 1929 passa al Seminario Metropolitano di Modena per il settennio di formazione in vista del sacerdozio. Viene ordinato sacerdote il 28 giugno 1936, all’età di 23 anni. Dopo l’ordinazione, nel 1937 si iscrive all’Università Cattolica di Milano per il corso di laurea in lettere che consegue nel 1941.
Ma dal 1937 è già insegnante di lettere al Collegio-Ginnasio S. Carlo di Montombraro tenuto dai sacerdoti diocesani, poi a Nonantola e dal 1941 di latino e greco al Seminario Metropolitano di Modena. Nell’ottobre del 1938 è nominato Vice-assistente diocesano della G.I.A.C.
Il 13 dicembre 1942 entra a far parte del Terz’Ordine secolare carmelitano scalzo di Modena prodigandosi per i confratelli bisognosi di accompagnamento spirituale. Nel 1943 chiede e ottiene dall’Arcivescovo C. Boccoleri di essere dispensato dall’insegnamento in seminario per potersi dedicare esclusivamente alla formazione della gioventù cattolica e alle urgenze del momento storico. Egli profonde così la sua ricca spiritualità incentrata sulla ricerca della presenza amante di Dio nell’uomo e per l’uomo sorgente di ogni apostolato conquistando il cuore dei ragazzi e degli adulti e stabilendo con tutti rapporti di esemplare sintonia.
Fondamentale è il suo contributo alla formazione dei giovani alla consapevolezza della inconciliabilità tra l’ideologia nazifascista ed il cristianesimo e la conseguente necessità dell’impegno socio-politico nella disobbedienza civile e nella ribellione attiva alla tirannide dominante. Egli è il primo a impegnarsi genialmente in questo senso con azioni definite di estremo rischio, coraggio e amore totalitario. Dopo l’8 settembre, infatti è immediatamente impegnato oltre che con l’A.C. delle due diocesi di Modena e Nonantola, per la salvezza dei militari stranieri e italiani prigionieri nei campi di concentramento o già sui treni della deportazione. Nel maggio del 1944 in seguito alle informazioni di un delatore a lui vicino viene spiccato un mandato di cattura da parte della guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Sassuolo che emanava l’ordine per cui don Elio Monari doveva “essere immediatamente arrestato a qualunque costo”.
Alla fine di maggio del 1944 dopo che i repubblicani hanno scoperto il suo gioco deve fuggire da Modena e nascondersi sui monti dove suo fratello Erio si è già unito ad Ermanno Gorrieri (Claudio) e alla sua Brigata partigiana Italia.
Dopo un intenso e fruttuoso ministero come cappellano di tutte le formazioni per il trionfo della fraternità e della giustizia viene arrestato dalle SS a Piandelagotti di Frassinoro (Mo) il 5 luglio 1944 mentre amministra i sacramenti ad un moribondo. Trasferito a Firenze in Via Bolognese, 67 (Villa Triste), dopo essersi rifiutato di passare al campo avversario, torturato a lungo viene poi assassinato al parco delle Cascine a Firenze il 16 luglio 1944 con altri 5 prigionieri. Il suo corpo, martoriato e quello di altri 16 giovani uccisi in quei giorni viene occultato lungo l’Arno in una trincea.
I suoi resti vengono ritrovati e recuperati solo nel 1956 e riposano ora con quelli dei 16 compagni di martirio nel cimitero di Rifredi a Firenze nelle cappelle dei caduti.
IL SUO MESSAGGIO
Il messaggio che ci lascia Don Elio è di perenne attualità. Aperto a tutte le voci profetiche come quella di don Zeno Saltini e alla sua visione familiare ed egualitaria della parrocchia e della società con al centro i bambini abbandonati, entra a far parte della sua comunità con l’impegno “ad immolarsi corpo e anima nel santificare tutte le forme della vita del popolo, lieto anche nel martirio”. Accanto a don Mario Rocchi sogna uno spazio accogliente per tutti i ragazzi di strada, dove plasmare anime ed elevarle alla statura di Cristo. In un tempo di aspri e sanguinosi conflitti dove il sospetto, la paura e la menzogna corrompono le relazioni sociali e con la violenza si stronca ogni voce discorde, egli in nome del Vangelo e della libertà percorre la strada opposta. Da impulsivo e caritatevole insieme si butta subito nei problemi fino ad essere giudicato imprudente, ma la capacità di trovare soluzioni impensate dicono che non lo è affatto. La sua fine intelligenza assieme alla mitezza e semplicità evangelica gli permettono di avvicinare, dialogare e lavorare con persone tanto diverse per idee politiche, religiose e nazionalità fino a farsi apprezzare e amare da tanti. Tra i suoi più stretti collaboratori vi sono comunisti, azionisti, socialisti, cattolici, protestanti, ebrei e tanta gente semplice allergica all’ingiustizia. Si arriva all’assurdo che alcuni fascisti invece di essergli acerrimi nemici cercano di salvargli la vita e i comunisti lo definiscono prete eccezionale. La sua estrema disponibilità senza fare mai calcoli sui rischi, lo vedono animatore di una rete clandestina di soccorso per proteggere e salvare la vita di chi rischia di perderla a causa di leggi inique. Tra questi in prima linea i numerosi giovani che si ribellano all’arruolamento nella R.S.I., gli oppositori politici, i militari stranieri, quelli italiani e i tanti ebrei allo sbaraglio. Si muove rapidamente, anche in moto, da un capo all’altro dell’Italia occupata per trovare soluzioni adatte alle necessità dei richiedenti aiuto. E così i giovani preparati alla meglio per la resistenza li invia in montagna, i soldati stranieri li manda in Svizzera o a Roma, gli ebrei presso famiglie, parrocchie, case di cura, istituti religiosi. Per questi ultimi riesce anche a creare vie di fuga dalla Valtellina per l’approdo in Svizzera. Assieme ai suoi collaboratori allestisce anche un ufficio per il recupero e la falsificazione di documenti necessari per aggirare le leggi persecutorie e creare nuove identità. Non è possibile quantificare il numero di persone che gli devono la vita.
Soprattutto quando scelse di condividere la vita dei partigiani unendosi ai suoi giovani che avevano deciso di salire sulle montagne modenesi e reggiane da resistenti, a contatto con quell’ambiente composito volle ben presto diventare cappellano di tutte le formazioni partigiane indipendentemente dai loro orientamenti politici onde vigilare perché fossero evitate violenze indiscriminate, vendette e soprusi. Era perennemente sul campo per assistere feriti e condannati a morte, liberare gli innocenti, scambiare prigionieri e salvaguardare così la giustizia. Anche lì era ammirabile la sua capacità di unire attorno a sé le diversità. Un esempio erano i buoni rapporti con Armando, Davide, e con il capitano russo Vladimir Pereladov. Questi dopo il suo l’arresto a Piandelagotti il 5 luglio perlustrò la zona nella speranza di ritrovarlo. Ugualmente era in buoni rapporti con il comandante partigiano Nello Pini a cui amministrò i sacramenti prima della sua fucilazione da parte dagli stessi uomini della resistenza.
I militari del Commonwealth da lui salvati furono talmente colpiti dal suo esempio che ritornarono subito dopo la guerra in Italia e come gesto di gratitudine vollero finanziare in sua memoria un edificio del grande progetto della Città dei Ragazzi di Modena già sognato da don Monari. Questi stessi affermarono: “Nessun uomo fu più coraggioso nello svolgere il proprio lavoro, nessuno si prese rischi maggiori per aiutarci di uno dei preti, don Elio Monari, nessuno subì una fine così violenta come quella del prete trentenne”. Ci resta ancora di lui un ultimo messaggio chiarissimo raccolto da uno dei suoi giovani poco prima del suo arresto quando disse che “sarebbe stato ben felice se avesse potuto fare olocausto della sua vita per la salvezza di un’anima”.
(A cura del Comitato per la memoria di don Elio Martire – Modena – tel 3701166246 – mail: alange8450@gmail.com)
PROFILO DI GIUSEPPE BERNASCONI – Assassino di don Elio Monari
Bernasconi Giuseppe, fiorentino, risulta quattordici volte condannato per truffa, appropriazione indebita, millantato credito ed altro, dichiarato socialmente pericoloso e sottoposto a libertà vigilata.
Dalle denunce della polizia 25 giugno e 13 luglio 1945 all’altro commissariato, dal rapporto informativo 2 luglio 1945 della questura di Firenze e dalle annotazioni della cartella biografica si rileva che egli svolse intensa attività di squadrista in Toscana nel periodo 1920-21 finché nel 1922 fu radiato dallo stesso p.n.f. per indegnità morale e uso di droga; da Roma dove si era trasferito fu allontanato con fogli di via obbligatorio come pregiudicato; vi tornò dopo l’8 settembre 1943, aderì subito al partito fascista repubblicano fu assunto quale maresciallo effettivo di p.s. per interessamento di Pavolini, presso la direzione del di p.s. del nuovo fascismo e svolse mansioni di collegamento fra quella direzione, la delegazione del p.f.r. per il Lazio, i comandi militari germanici e l’ambasciata tedesca avendo anche contatti con la S.S germanica agli ordini della quale organizzò squadre da lui stesso comandate per la lotta contro il movimento di resistenza antinazifascista, in collaborazione per qualche tempo con Pasqualucci Giorgio, Pastori Giovanni e i loro uomini.
Svolse attività connessa con il reparto speciale di polizia costituito da Koch ma con i sistemi di cui si è fatto carico nelle premesse. All’irruzione armata nell’abbazia di San Paolo, risulta non solo che prese parte con una sua squadra ma concorse anche ad organizzare l’impresa tanto che ne fu elogiato da Koch nel suo rapporto 4 febbraio 1944 al capo della polizia Tamburini.
Una squadra comandata da lui e dal contumace, Palmiri concorse ad operare con gli armati di Koch al rastrellamento dei partigiani di Tor Sapienza.
Ancora in concorso con un manipolo di agenti del Koch (fra i quali l’Argentino e il Priori) tentò di arrestare nella notte del 6 marzo 1944 in Roma, Petrocchi Ugo, segretario del Partito di Azione (denuncia della questura di Roma).
Il 23 marzo 1944, dopo alcune ore dall’attentato verificatosi in via Rasella contro una colonna di militari tedeschi, Maro Angelo, portiere dell’albergo “Imperiale” dove il Bernasconi era alloggiato, lo vide rientrare con gli stivali tutti intrisi di sangue: il Bernasconi gli disse di aver partecipato alla rappresaglia organizzata dai tedeschi contro gli abitanti in quella strada e, riferendo l’accaduto, concluse con queste testuali parole: “ho notato due individui che avevano le armi in mano e li ho subito freddati, siccome io sono un tipo che vado per le spicce (dichiarazione Maro, confermata all’udienza del 13 luglio). Che Bernasconi abbia, preso parte alle rappresaglie tedesche per l’attentato di via Rasella è, dimostrato, anche dal fatto sulla sua partecipazione con Pizzirani all’irruzione nel ministero sulla Real casa, operazione che di quella rappresaglia faceva parte: Franceschelli Augusto, portiere di quel ministero, nella sua deposizione all’Alto commissariato confermata al dibattimento riferisce infatti che il 24 marzo giorno successivo a quello dell’attentato, gli si presentarono il Bernasconi, il Pizzirani ed altri capi del fascismo repubblicano romano scortati da uomini dei battaglioni “M” in divisa ed armati imponendo di aprire tutti gli uffici, per accertare l’esistenza di armi e la presenza di persone nascoste. Nulla avendo trovato, danneggiavano mobili e quadri, e il Bernasconi in particolare dando sfogo al suo disappunto per dell’insuccesso dell’operazione e prendendo pretesto del fatto che egli si era avvicinato al telefono per rispondere ad una chiamata che attendeva dalla moglie, lo spinse con le spalle al muro e, sotto la minaccia di un moschetto puntatogli contro, lo schiaffeggiò.
Sempre in appoggio all’attività collaborazionistica svolta dal reparto Koch in Roma il Bernasconi procedette nello stesso giorno 24 marzo col “questore” Fabiani e con ingente apparato di armi, all’irruzione nella villa di via Salaria per arrestarvi il registra Luchino Visconti che, partecipando al movimento della resistenza, era attivamente ricercato e venne poi catturato dagli agenti di Koch (deposizione Visconti).
In quella stessa circostanza, nel medesimo luogo, arrestò il dott. Chiari Mario e circa un mese dopo, con una squadra ai suoi ordini, procedette alla cattura di alcuni giovani renitenti alla leva repubblicana rifugiatisi nei locali del circolo da golf, in via Appia Nuova, percuotendo uno di essi, certo [ill.], così ferocemente in viso, da staccargli quasi la mascella (dep. Gullia Mario) e trattenendo tutti alla pensione Iaccarino a disposizione del Koch.
Ivi pure, dopo averli arrestati nella loro abitazione presso l’Istituto Nazionale di apicoltura la notte del 9 maggio, trattenne il tenente Ruffolo Sergio e il fratello di lui, promettendo alla loro madre che presto l’avrebbe lasciati tornare a casa. Alla pensione Iaccarino li trattenne, invece, una ventina di giorni; quindi li fece portare a Regina Coeli e alla madre che ne implorava la restituzione, ancora una volta promise che sarebbero stati liberati prima di sera; fece, anzi, dire loro da un agente che erano liberi, fece restituire loro tutte le cose delle quali erano stati spogliati, ad eccezione degli oggetti d’oro e li fece salire sopra una macchina dove prese posto anch’egli; ma indirizzò l’autista a Via Tasso e quando furono ivi giunti li consegnò entrambi ai tedeschi (depos. Ruffolo Sergio all’udienza del 23 luglio).
Al rapporto 25 novembre 1944 della questura di Roma richiamato nella denuncia inviata il 25 giugno 1945 all’Alto commissariato da quel Nucleo di Polizia giudiziaria è allegato un registro abbandonato dalla federazione fascista repubblicana per dimenticanza al momento della precipitosa fuga verso il Nord, dal quale si ha notizia dei saccheggi eseguiti in quella città dal Bernasconi col Pasqualucci e con altri; nei magazzini degli ebrei Sestieri, Borghi, Bonaffoni e Techner che furono deprivati di cose e di merci di valore rilevantissimo.
Dagli stessi incartamenti che fanno parte di quel registro si apprende che, per opera delle medesime persone, vennero tratti in arresto e derubati del denaro che portavano indosso gli ebrei Calò Sante, Piattelli Cesare, Caviglia Santoro, Di Cave Pia, Veneziani Ubaldo, Di Nepi Cesare e i non ebrei [ill.] Antonio, Alessi Giovanni e Andreoni Luigi. Tutti vennero consegnati ai tedeschi, tranne il Piattelli che venne poi fucilato alle fosse Ardeatine. Il nome del Bernasconi è inviato in un foglio del predetto registro contenente l’elenco di coloro fra i quali furono ripartite le 32000 lire appartenenti agli ebrei arrestati. Lo stesso elenco comprende anche il nome del capitano Kohler sulla S.S. in via Tasso per conto della quale è, portato, a ritenere che agissero il Bernasconi e i suoi complici.
Il Nucleo di Polizia giudiziaria di Roma nella denuncia 25 giugno 1945 all’Alto Commissariato riferisce, inoltre, che ai rastrellamenti di partigiani operanti in grande stile nella borgata Gordiani e in altre località della periferia in quella città, partecipò attivamente il Bernasconi con la sua banda. Particolare notizia dà la denuncia stessa, dell’operazione eseguita dal Bernasconi la sera del 7 febbraio 1944 in Via Ernesto Monaci n. 21 allo scopo di procedere alla cattura del capitano Battisti Luigi Comandante di una banda di partigiani e del tenente Seghettini Walter [ill.] egli ufficiale alla macchia.
Dalla denuncia esposta dal Cap. Battisti confermata dal denunciante al dibattimento (verb. del 22 luglio) si apprende che quella sera, otto individui armati al comando del Bernasconi, fatta irruzione nel suo domicilio e non trovatolo in casa, occuparono l’appartamento, perquisirono tutte le stanze e stabilirono un servizio di piantonamento per eseguire il progettato arresto. Durante la notte fu sottoposta a stringente interrogatorio la moglie del Battisti, fu malmenata l’attendente carrista Camerota Ciro e dall’abitazione furono asportati tutti i documenti militari, lire 20.500 delle quali 3.500 di proprietà dell’attendente, tutti i gioielli della signora, numerosi indumenti personali ed una vettura “Lancia Augusta”. Dopo una settimana, durante la quale gli uomini del Bernasconi consumarono i loro pasti servendosi delle provviste tenute in casa, il piantonamento ebbe termine, ma l’attendente carrista fu trasferito in carcere. Di quanto era stato asportato dalla casa del Battisti vennero restituiti soltanto i gioielli tranne un anello con brillante di non grande valore.
Anche dall’addebito che gli è stato per questo fatto, come da quella concernente l’operazione di Via Salaria il Bernasconi ha creduto di potersi scagionare affermando che l’azione era diretta dal questore “Fabiani”; ma, per le considerazioni già dalla corte annunciate nella premessa, la circostanza, anziché escludere, conferma la sua responsabilità per concorso nel fatto del quale deve, pertanto, ugualmente rispondere a norma dell’art 110 c.p. come degli altri. Il Fabiani, d’altronde, non era ‘’questore’’; era un individuo non meno losco di lui, che poi fu fucilato a Bologna.
Ancora si apprende, infine, dalla denuncia del nucleo di polizia giudiziaria di Roma che il Bernasconi partecipò, insieme con la SS Tedesca, alla repressione operata il 10 Marzo 1944 in Via Tomacelli, in quella città, subito dopo il lancio, ad opera dei patrioti, di tre bombe contro una colonna di fascisti e di altri ufficiali della milizia repubblicana che, proveniente dalla Casa Madre dei Mutilati, dove aveva assistito alla commemorazione di Giuseppe Mazzini, si dirigeva verso la sala della federazione repubblicana in Via Veneto.
Numerose perquisizioni domiciliari e fermi di persona vennero [ill.] operati anche personalmente da lui.
Dopo il 4 giugno il Bernasconi si trasferì da Roma Liberata a Firenze; qui, entrò a far parte della famigerata Banda Carità, rilevando la guida dell’Ufficio Politico Investigativo (UPI) della Guardia Nazionale Repubblicana fiorentina da Mario Carità quando questi l’8 luglio 1944 si trasferì prima a Bergantino e poi a Padova. In tale veste, Bernasconi svolse indagini sull’uccisione dell’11 luglio del milite fascista dell’UPI Valerio Volpini che portarono il 15 luglio all’arresto del partigiano gappista Bruno Fanciullacci, il quale fu condotto a Villa Loria, la famigerata “Villa Triste” di Firenze. Gravemente ferito nel corso di un tentativo di fuga lanciandosi da una finestra, Fanciullacci morì il 17 luglio. Bernasconi collaborò attivamente con le SD (Sicherheintdienst) germaniche di via Bolognese dove i patrioti controllati venivano sottoposti ad atroci, sanguinose torture.
Nel pomeriggio del 17 luglio 1944 le milizie repubblichine guidate dal Bernasconi attaccarono i cittadini inermi presenti nella piazza Torquato Tasso, nel quartiere fiorentino di San Frediano, causando cinque vittime: Ivo Poli (di soli otto anni), Aldo Arditi, Igino Bercigli, Corrado Frittelli e Umberto Peri; si contarono inoltre numerosi feriti più o meno gravi. Altri abitanti del quartiere furono catturati e di loro si persero le tracce. Solo molti anni dopo, nel 1956, furono ritrovati i loro corpi assieme a quelli di don Elio e di Enzo sul greto del fiume Arno, nel parco delle Cascine: erano stati fucilati da lui e dai suoi uomini. Arrestato nel 1945 fu condannato prima alla fucilazione e poi all’ergastolo e con l’indulto riuscì a cavarsela con 12 anni di detenzione morendo nel proprio letto.