Testimonianze

[….Passati pochi giorni diventa una spia è ucciso a tradimento e sepolto lungo il corso del torrente Riaccio. Così avverrà ad un nostro compaesano, Piacentini Ettore, il quale ritornando da Montefiorino sull’auto postale, nei pressi di Spervara è preso dai partigiani e giudicato spia è ucciso e sepolto in quel di Vallorsara. Così accadrà a uno sfollato della Bassa Italia, capitato qui il giorno precedente quello dell’arrivo dei tedeschi. Dopo la partenza di costoro, preso dai partigiani, è dichiarato una spia e, senza tanti complimenti, con due colpi di rivoltella è ucciso sulla via di Casa Pellini, all’altezza del Campino, lo ha assistito don Luigi[1] , è morto da buon cristiano e, contro l’ordinario volere dei partigiani, è sepolto nel cimitero. Ma un cimitero di spie anti-partigiane è diventata tutta la nostra piccola volle.

Monari don Elio (don Luigi)

Don Luigi è venuto a Piandelagotti col milite repubblicano catturato, che deve essere giustiziato. Ma chi è questo repubblicano? È quel Piacentini Renato già evaso dalle carceri partigiane e una settimana fa guida dei tedeschi da Pievepelago a Piandelagotti. Portato su un camion, è arrivato in uno stato veramente pietoso. I suoi custodi, ed erano parecchi, prima e durante il viaggio lo hanno insultato, vilipeso, malmenato, e a loro qui si sono aggiunti altri che, per dare sfogo ad antichi rancori, hanno creduto doveroso assestargli sul viso, già livido e tumefatto, una buona serie di cazzotti. Io lo vidi un momento solo e piuttosto da lontano: Io vidi in mezzo ad una turba di forsennati attorno a lui urlanti e sghignazzanti, collocato sopra un muricciolo, perché fosse esposto meglio al ludibrio di tutti, colle mani legate e rialzate a cerchio sopra la testa. Indignato, rivolsi subito altrove lo sguardo. Intervennero poco dopo il capitano Enzo e don Luigi, i quali con parole energiche ed assennate posero fine a quella scena di pretta barbarie medioevale. Quel disgraziato fu portato a Casa del Pella e consegnato alla formazione partigiana di stanza lassù. Egli chiese soltanto, e gli fu concesso, di vedere Io zio don Giuseppe Lunari, parroco di Riccovolto. Domani nel pomeriggio dovrà essere ucciso, ma l’arrivo dei tedeschi farà anticipare l’esecuzione della sentenza e nelle prime ore del mattino (uccisore Bolero) la sua salma sarà sepolta sotto poche zolle di terra nei prati di Casa del Pella.

Don Luigi alla sera è a cena con noi. Egli era un mio ex alunno del seminario di Modena, poi mio collega d’insegnamento. Giovane sulla trentina, molto intelligente e colto. Aitante nella persona grazie alla sua fibra assai robusta, poteva svolgere un’attività sorprendente nel campo dell’Azione Cattolica, di cui era assistente per la diocesi di Modena. Caduto in disgrazia e ricercato attivamente dal partito repubblicano, era sfuggito all’insidia e si era buttato a capofitto nel campo partigiano, ove si era acquistato tante simpatie e dove era assai stimato ed amato. Restò in casa mia fino circa la mezzanotte, poi volle andare. «Io devo dormire con i miei e malamente come i miei», disse. Ci salutammo e fu quello l’ultimo saluto terreno, perché all’indomani fu preso dai tedeschi assieme al capitano Enzo e dopo alcuni mesi, almeno a quanto si asserisce, fucilato.

Abbiamo detto che i partigiani fissano la sede del loro comando nell’albergo della Posta, da dove è sfollata la famiglia di Trogi Luigi. A richiesta del comandante occupano tutto il piano terra e il primo piano, la sala e due camere con i relativi letti: le altre camere restano chiuse a chiave e i nuovi ospiti danno assicurazioni formali che nulla di quanto contengono verrò toccato. Viceversa, proprio nel primo giorno prendono il volo tre quintali di frumento e inoltre vestiti, maglie, posate e parecchie altre cose fatte sparire o, per dirlo in linguaggio più giusto e più appropriato, rubate dalle stanze chiuse a chiave e da loro aperte non solo senza permesso, ma anche senza l’aiuto della chiave, proprio all’usanza dei ladri. Alle giuste rimostranze dei padroni di cosa il signor Matteotti, d’ingrata nostra conoscenza, si giustifica dicendo di essere stato indotto a quella appropriazione dal fatto di avere trovato nella casa tessere fasciste.

Con deduzioni e applicazioni pratiche di questo genere (questo lo pensiamo noi ma non sappiamo se risponde a verità), per i partigiani è certo grata ventura trovare nelle case tessere lasciate. Però si fa osservare che quelle tessere sono del passato regime, sono tessere ormai morte e sepolte, anzi già fetenti, che probabilmente anche il signor Matteotti e quelli della sua famiglia avranno avuto ai tempi dell’incontrastata dominazione fascista. Si fa inoltre osservare che è sempre delitto prendere indebitamente l’altrui, Io è specialmente quando si prende a famiglie cariche di figlioli e provate da tante sciagure. Il signor Matteotti promette che ogni cosa sarà restituita; ma quanto sono facili a promettere questi signori, sono altrettanto restii a mantenere. E così non vengono resi 72 chili di frumento.

Secondo attacco tedesco

5 luglio 1944 – Circa alle ore sette e mezzo del mattino, uscendo alla chiesa ove ero stato a celebrare la Santa Messa, mi incontro col capitano Enzo, che dell’aspetto mi pare preoccupato. Lo Saluto gli chiedo notizie. «Da quella parte», mi dice senza trattenere il passo, accennando verso Sant’Anna Pelago, «pare che ci sia del brutto». «Sarà prudente allontanarsi?», gli chiedo.

«No, se ce ne sarà bisogno avviseremo», mi risponde e se ne va. Poco dopo colpi di moschetto e di mitra ci avvisano che i tedeschi on sono molto lontani (oramai li conosciamo dal caratteristico colpo del loro ta-pum), ma le pattuglie partigiane ci hanno assicurato che, disseminate ovunque, non lasceranno entrare il nemico. Viviamo in questa fiducia, ma per maggior Sicurezza ci ritiriamo colle famiglie di Palandri Assuntina, Zanotti Carlo e Saltarini Esterina in una cantina che stiamo appunto preparando per ridurla a rifugio. I colpi provengono dalla parte del ponte sul Dragone, ponte minato e fatto saltare dai partigiani. Là appostati con mitragliatrici i partigiani attaccano decisamente i tedeschi, arrivati con otto o dieci macchine. Ne segue una furiosa battaglia, che non dura a lungo e si chiude con la vittoria dei tedeschi. Questi, messi in silenzio i partigiani, si portano nei casolari più vicini e là raccolgono tutta la gente che vi trovano, senza distinzione di sesso e di età, e li costringono ad andare alla costruzione del ponte.

Ad alcuni dei nostri ex militari uno Zanni da Casa Golino e Fontanini Carlo, quest’ultimo ucciso più tardi dai tedeschi al Faldo sembra cosa impossibile che con una mitragliatrice piazzata in ottima posizione, a Casa Golino, non si possano e non si debbano snidare tedeschi dal ponte. Domandano ed ottengono di dare a loro un’arma che a quanto pare i partigiani non sanno usare. E infatti appena quell’arnese micidiale passa in mani più abili comincia a funzionare a dovere. I tedeschi e i lavoratori si ritirano dal ponte. Con questo però, i tedeschi non cedono, anzi premono sempre più e, cacciati decisamente tutti gli avversari, si portano nelle borgate più prossime. Casa Gualtieri, Cacciatore, Marcantonio, Masino, Grandi, Golino e bruciano senza remissione case, stalle, capanne e fienili. Indi, procedendo verso il paese, fanno prigionieri il capitano Enzo e don Luigi e, giunti nel centro, danno fuoco all’albergo della Posta, reo di avere ospitato il comando partigiano. Dalla sommità del monte Roncadello dove io mi trovavo, vedevo bene le fiamme sprigionarsi grandiose da quella casa e indirizzarsi verso il cielo col cupo grigiore di una lunga e densa Colonna di fumo. Quella lugubre vista destò nell’animo mio un senso di profondo dolore anche perché in quella casa ero solito da anni passare le brevi ore di riposo giornaliero e mi opprimeva il pensiero della grave, immane sciagura che colpiva una famiglia già da tante sciagure provata. Parecchio tempo restai lassù a contemplare il triste spettacolo, offrendomi materia per meditare sulla miseria della vita e sulla malvagità degli uomini.

Come mi trovavo sul monte Roncadello? Raccontiamo. Ho già detto che al principiare del combattimento mi ero nascosto con altre famiglie in una cantina rifugio. Verso le ore nove. in un momento che pareva una tregua, uscii fuori, mi portai sulla strada, ove tutto era deserto, tutto era silenzio, Mi spingo fino al Colle e di là sento i partigiani di postazione a Casa Geminiano che dicono: «Ormai se ne vanno».

Volgo lo sguardo verso la Baracca e vedo distintamente quattro o cinque macchine scendere verso Sant’Anna Pelago. Sono dunque stati respinti. Deo Gratias! Corro ad avvisare i compagni nascosti e paurosi nella cantina, che accolgono con grande giubilo la lieta notizia. Recitiamo insieme il le Deum ed altre preghiere di ringraziamento al Signore ed usciamo allegri dalla cantina. Non abbiamo ancora completamente allietato d’animo nostro, pochi passi abbiamo fatto fuori all’aria aperta, quando nuovi colpi di moschetto, di mitraglia ed ora anche di cannone risuonano non molto lontano. Non è dunque vinta, non e finita la battaglia. Allora via dentro di nuovo, e l’inno del ringraziamento si converte in un salmo penitenziale. Poco dopo ritorno fuori, nonostante il contrario parere dei miei paurosi compagni: voglio accertarmi di che si tratta: voglio vedere se è possibile trovare il capitano Enzo o qualche altro partigiano che mi chiarisce la situazione. Lungo la via nessuno: mi metto in ascolto: silenzio sepolcrale rotto solo da qualche isolato colpo di moschetto piuttosto vicino. M’incammino verso il Colle e giunto davanti alle scuole m’imbatto in un partigiano zoppicante e dolorante. Gli vado incontro e gli chiedo notizie. «Sono ferito e ho una gran sete. Voi scappate, perché i tedeschi sono qui a due passi», mi dice. Lo prendo per un braccio, lo accompagno alla fontana e Io consegno ai suoi camerati che si trovano nella sede del comando, situato di fronte alla fonte: poi di corsa vado a comunicare ai compagni le ultime notizie. Escono tutti con grande fretta dal nascondiglio e indossati gli zaini pieni di viveri, tenuti sempre pronti, in vista appunto di una probabile e improvvisa fuga, scappiamo tutti verso Fontanaluccia (PRETI NELLA BUFERA, Pievepelago 2010 (Mons. Adolfo Lunardi, pp. 72 – 79)

Don Luigi era il nome di battaglia di don Elio Monari. Modenese docente nel seminario metropolitano (oltre a quella in teologia aveva anche una laurea in lettere). ero stato attivissimo come assistente provinciale nelle associazioni cattoliche giovanili. Generoso ed estremamente disponibile. Esercitò al massimo grado la virtù cristiana della carità, aiutando con la medesima sollecitudine tutti coloro che si rivolgevano a lui con fiducia, cattolici, ebrei, protestanti. comunisti e miscredenti. Come se non bastasse da convinto antifascista qual ero si dedicò all’organizzazione di gruppi di resistenza cattolici in città e provincia. Dovette abbandonare il seminario, dove la sua presenza non poteva più essere gradita alle alte gerarchie ecclesiastiche della diocesi, che continuarono a rispettare l’impegno preso col fascismo di non permettere alcuna attività politica nelle organizzazioni cattoliche, e andò ad abitare in una stanza della canonica di una parrocchia periferica. Divenuto sospetto alle autorità nazifasciste. si rifugiò in montagna. su sollecitazione di alcuni confratelli, per evitare l’arresto imminente, e si unì a gruppi locali di partigiani attivi in quel di Zocco. Si trasferì poi nella zona di Montefiorino e di qui nella montagna reggiano, a Mosso di Toano e a Cervarolo, seguendo i movimenti delle formazioni partigiane. di cui divenne il cappellano, col nome di don Luigi. il primo che

visse con loro, condividendone i rischi e i disagi.

Fu catturato dai tedeschi, come si è detto, assieme al capitano Feliciani. a Piandelagotti, durante I ‘attacco del 5 luglio. mentre porgeva i conforti della Fede a un moribondo, come testimoniò la sua stola, che egli portava sempre con sé. ritrovata nel luogo ove la battaglia era infuriato più accanito. Di lui e del suo infelice compagno di sventura per anni non si seppe più nulla. La verità si è conosciuta poco alla volta a guerra finita da un mezzo. Si seppe che entrambi erano stati condotti O Firenze e relegati nello terribile Villa Triste di Via Bolognese, dove agiva Io famigerata banda Carità, un gruppo di depravati che ebbero modo di sfogarvi i loro istinti degeneri. Ma Io data e il luogo dello loro morte continuarono a restare ignoti. Soltanto nel 1961 uno storico della Resistenza fiorentina ho documentato che don Elio e il capitano Feliciani furono fucilati alle Cascine il 21 luglio 1944, con altri sedici partigiani. Le misere salme dei componenti il gruppo, ormai irriconoscibili e indistinguibili l’una dall’altra, vi erano state rinvenute fin dal 1958 ed erano state trasferite là nel cimitero suburbano fiorentino di Trespiano. Alla memoria di don Elio Monari fu concessa nel 1953 la Medaglia d’oro Ci Valor Militare (l. Vaccari, Il tempo d decidere, Modena 1968, pp. 203-272).

” Dell’energico intervento di don Elio Monari affinché cessassero le sevizie cui era sottoposto il prigioniero fu testimone Bartolomeo Bondioli, di Sant’Anna Pelago, che il 4 luglio si trovò a Piandelagotti insieme a due compaesani e poté assistere alla scena. «Vidi don Monari – ha dichiarato a uno dei curatori rivolgersi al commissario ed esclamare: – È un’infamia trattare una persona così -. Gli fu risposto: Lei, padre, pensi a fare il prete, che al resto pensiamo noi. Ma don Monari replicò duramente: – Quello che fate è disumano. Se quest’uomo è colpevole, fucilatelo, ma non martirizzatelo così!».